Immerso tra i palazzi medioevali di Roma, alle spalle di piazza Navona, il chiostro del Bramante si nasconde furtivo in via della Pace, dietro i rami intrecciati delle piante rampicanti. Se non fosse per la locandina esposta all’esterno risulterebbe difficile individuarne l’ingresso.
Una porta introduce nel piccolo atrio che ospita la biglietteria, dopo di che percorrendo uno dei lati interni del chiostro si entra negli ambienti museali collocati sui due piani dell’edificio adiacente la chiesa di S. Maria della Pace.
La prima volta che mi recai in via della Pace fu per ammirare le opere del celebre pittore olandese Gaspar Van Wittel, considerato il precursore del vedutismo settecentesco, che seppe immortalare nelle sue tele il fascino romantico di Roma, riproducendo le pendici scoscese di Trinità dei Monti o i giardini botanici delle ville romane illuminate dal sole tiepido primaverile. Una mostra ricca di paesaggi e suggestioni in un susseguirsi di dipinti ed acquerelli dalle tonalità pastello che trovano spazio in un’attenta e accurata composizione prospettica.
In quell’occasione rimasi sorpresa dalla quantità delle sale che si aprivano davanti ai miei occhi in un avvicendarsi di scale e labirinti intersecati. Inaspettatamente mi resi conto di come l’edificio fosse in grado di ospitare il gran numero di opere appartenenti alla vasta produzione pittorica dell’artista, padre dell’altrettanto famoso Luigi Vanvitelli (il cognome venne italianizzato) la cui fama è legata soprattutto alla realizzazione della favolosa reggia di Caserta.
Il chiostro del Bramante è a tutt’oggi uno dei più importanti siti museali messi a disposizione degli allestitori di eventi culturali a Roma e uno tra i pochi in grado di offrire al pubblico lo spazio adatto per presentare un ritratto monografico completo, ricco ed esaustivo degli artisti celebrati in ogni singola mostra.
Ritorno quindi a visitare il chiostro per ammirare la mostra preannunciata sul palinsesto degli appuntamenti culturali romani. Questa volta protagonista dell’evento è il grande pittore catalano Joan Mirò. Una monografica che ripercorre la vita dell’artista ponendo particolare attenzione al suo lungo soggiorno maiorchino, un arco temporale racchiuso tra il 1956 e il 1981 che vide la nascita di una grande quantità di opere pittoriche.
“Poesia e luce” è il titolo della mostra. Appellativo che pare provenire da una dichiarazione se non d’amore quanto meno di affetto e riconoscenza che Mirò rivolse alla sua isola. Maiorca è poesia e luce, dichiarò, fonte di energia ed ispirazione. Nel 1956 Mirò scelse di trasferirsi in questo luogo di pace cosicché Maiorca divenne la sua casa, il suo studio, il suo mondo per ben 25 anni.
La mostra si dipana come un filo di Arianna fino a completare un viaggio nella suo mondo artistico, una lettura poetica del suo percorso creativo che ebbe inizio nel 1908 e che si chiuse nel 1983, anno della sua morte, per comprendere da vicino la continua evoluzione che lo vide pittore e scultore di grande energia, prolifero ed instancabile fino alla fine dei suoi giorni.
La mostra si dipana come un filo di Arianna fino a completare un viaggio nella suo mondo artistico, una lettura poetica del suo percorso creativo che ebbe inizio nel 1908 e che si chiuse nel 1983, anno della sua morte, per comprendere da vicino la continua evoluzione che lo vide pittore e scultore di grande energia, prolifero ed instancabile fino alla fine dei suoi giorni.
Ripercorro gli ambienti ormai a me familiari e mi accorgo con piacere di come anche questa volta il lavoro degli organizzatori sia stato all’altezza delle aspettative.
Sono 80 le opere esposte per la prima volta a Roma, accuratamente selezionate dalla curatrice, la dottoressa Maria Luisa Lax Cacho, considerate una tra i maggiori esperti accreditati dell’arte di Joan Mirò. La maggior parte provengono dalla Fondazione Pilar e Joan Mirò di Barcellona, associazione fondata dallo stesso artista nel 1981 come centro di aggregazione e studio dell'arte contemporanea. Quadri, acquerelli, bozzetti, schizzi di colore, impronte originali di virtuosi astrattismi.
Pittore e scultore ricco e poliedrico, Mirò seppe mescolare i colori creando composizioni dal forte impatto emotivo ma non si limitò ad esprimere la sua creatività esclusivamente nella pittura. Mirò riuscì a maneggiare la materia realizzando opere di vario genere. Come la carta e il legno, materiali che troviamo abilmente accostati e assemblati su tele colorate a formare dei singolari quanto suggestivi collages.
Mirò subì l’influenza delle maggiori correnti artistiche del suo secolo. Dopo esser passato attraverso diverse esperienze pittoriche prime fra tutte il fauvismo e l’impressionismo che lo portarono a frequentare gli ambienti artistici di Parigi e dove ebbe modo di conoscere un altro genio assoluto del suo tempo ossia Pablo Picasso, Mirò si avvicinò al linguaggio del dadaismo, attraverso il circolo Dada di Tristan Tzara, e al cubismo. Infine, dopo aver sperimentato le singole tecniche, rinunciò all’arte figurativa per abbracciare l’astrattismo e il surrealismo, lasciando un segno inconfondibile nel panorama delle avanguardie europee.
Di ritorno nella sua terra natia dopo la parentesi parigina, Mirò dichiarò di sentirsi arricchito interiormente da quella singolare quanto straordinaria esperienza artistica e di essere pronto ad esprimersi completamente. La sua anima, dischiusa dalla luce della conoscenza, era pronta ad iniziare una nuova fase creativa. E così fece.
Scelse Maiorca come sede dei suoi lavori. L’isola dove nacque sua madre e alla quale si legò soprattutto il seguito al matrimonio con una nativa del luogo. Immerso nella natura aspra e selvaggia di quella terra a cui sentiva di appartenere, protetto nel suo ventre materno così caldo e rassicurante che nutriva la sua anima nel profondo, riuscì esprimere le sue sensazioni nei toni caldi dei suoi quadri, nei suoi acquerelli, nella manipolazione della materia da cui presero vita le sue sculture in bronzo e terracotta.
Svincolato ormai dai limiti posti dalla pittura figurativa e inseguendo quell’idea di libertà e di indipendenza che sembrava aver ritrovato nell’astrattismi di matrice americana, Mirò creò delle opere che raggiungo addirittura punte di surrealismo. La sua è un’arte concettuale che concepisce la realtà come un punto di partenza e non di arrivo. Un’arte gestuale che prevedeva l’uso delle mani e dei piedi sulle tele, calpestandole finché non sentiva uscire l’opera dal bianco della materia. Secondo Miro è attraverso la sua elaborazione visiva che l’opera prende vita per poi distaccarsi definitivamente dall’artista. Oggi quelle gocce di colore, quelle impronte confuse sulle tele, quegli schizzi di pennello li ritroviamo esposti davanti ai nostri occhi nella loro originalità, accostati a tele di grandi dimensioni, imponenti, gigantesche. Una scelta motivata anche dal suo interesse per l’espressionismo astratto e per la pittura murale. Abbandonate le tonalità accese, si levano inaspettatamente immagini confuse in bianco e nero. Sono figure accennate e non completate, quasi a suggerire fantasmi o draghi stilizzati, effetto dell’influenza orientale. Infatti Mirò riversò in alcune delle sue creazioni tracce della contaminazione artistica subita durante i suoi viaggi in Giappone, trovando ispirazione negli ideogrammi e nei makimono dalle forme strette ed allungate.
Infine al centro delle grandi sale affiorano come piccoli totem anche le sue piccole e singolari sculture, dalle figure stilizzate in ferro e bronzo.
Centro nevralgico della mostra è l’atelier maiorchino del celebre artista, ricostruito in ogni minimo dettaglio. Mirò coltivò sempre il sogno di avere uno spazio tutto per sè dove lavorare protetto dalla pace e avvolto dal silenzio che solo la natura poteva offrirgli. E questo sogno fu realizzato a "Son Abrines", la sua casa di campagna, dal suo amico architetto Joseph Louis Stern che realizzò con piena soddisfazione dell'artista questo ampio atelier. Mirò considerava lo studio il suo orto definendosi a suo tempo il suo giardiniere. Dalla grande finestra, avvolto nell’abbraccio familiare della sua isola che gli trasmetteva un senso di tranquillità interiore, e abbagliato dalla luce naturale e dalle sfumature cromatiche dei paesaggi di quella terra selvaggia e incontaminata, Mirò trovò una vena inesauribile di creatività e di profonda ispirazione. Lo studio è il cuore vivo della mostra. Tra tavolozze di colore rappreso, piattini e pennelli sporchi come testimonianze di un lavoro appena ultimato, scorgiamo grossi pannelli addossati alle pareti. Gigantesche immagini fotografiche lo ritraggono all’opera. Mirò lavorava alacremente ed incessantemente, circondandosi di tele abbozzate, acquerelli, ma anche di sculture e di oggetti di matrice primitiva che rimandano alla magia delle arti precolombiane ed oceaniche.
Spesso era impegnato nella creazione di più opere contemporaneamente, dalle quali si distaccava per un breve periodo per poterle riprendere successivamente con una visione più critica e portarle finalmente a compimento.
Concludiamo infine la nostra visita, ritornando arricchiti da questo breve ma profondo viaggio nel mondo surreale e colorato di questo grande artista dal quale ci concediamo silenziosamente, serbando nell’animo lo spirito poetico della sua arte e della sua terra.
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