(testo Rosa Orsini)
Fino al 31 marzo 2014 è possibile ammirare nelle sale interne della Ermanno Tedeschi Gallery al Portico D'Ottavia in Roma la mostra “Last Folio” del fotografo slovacco Jury Dojc. Dopo aver fatto tappa alla Cambridge University, al Museum of Jewish Heritage di New York, alla Commissione Europea di Bruxelles e a Košice (Capitale europea della cultura 2013), la mostra approda a Roma in occasione delle celebrazioni del giorno della memoria.
“Last Folio” è un progetto
nato nel lontano 1997 quando in occasione del funerale del padre,
Dojc ebbe modo di conoscere un superstite della Shoah. Un incontro
che fece scattare il lui il desiderio di ritornare nel suo paese
d'origine, lui che dal 1969 si era trasferito in Canada, per
ripercorrere i luoghi dove i suoi genitori erano vissuti, la casa di
famiglia, le strade, la gente e scoprire la verità sulle
persecuzioni antisemitiche che avevano devastato la Slovacchia
decimando in maniera consistente la fiorente e numerosa popolazione
ebraica stanziata prima della fine della seconda guerra mondiale.
Una corsa contro il tempo nel tentativo
di recuperare la memoria storica del popolo slovacco con cui Dojc
sente di avere un forte legame di appartenenza. “Last folio”
è quindi un processo di ricerca e ricostruzione di un puzzle che
mette insieme frammenti di vita spezzati. Un video ci illustra i
momenti salienti di questo viaggio che nasce con la morte del padre e
termina con il ritrovamento casuale di un vecchio libro appartenuto
al nonno in un oratorio abbandonato. Una scoperta dettata dal caso o
il fine ultimo e segreto di un viaggio voluto dal destino? Certo è
che il fatto ha dell'incredibile.
Dojc ripercorre le sue radici,
raccoglie testimonianze, ascolta i racconti drammatici dei
superstiti. Indaga sul passato di un popolo un tempo fiorente,
decimato dalle persecuzioni razziali promosse dal governo fantoccio
di Tiso che con la sua crudele ambizione, sostenuta dal governo
nazista, incitava i cattolici slovacchi ad intraprendere una
sanguinosa irragionevole guerra religiosa. E nel corso di questo
processo di ricerca Dojc osserva e fotografa, consegnandoci
suggestive testimonianze visive.
Le immagini creano un effetto che
oscilla tra presente e passato dove l'evanescenza confonde con le
ombre un gioco confuso di inquietanti presenze. Con i suoi scatti
Dojc tenta di tenere viva la memoria. Sono gli oggetti a testimoniare
il passato, non soltanto libri, ma anche i luoghi reputati al culto e
alla memoria. Sono loro i veri superstiti dell'olocausto.
Dietro le fotografie esposte alla
Ermanno Tedeschi Gallery si racconta un episodio drammatico.
Una serie di scatti immortalano ciò che rimane di una piccola scuola
di Bardejov, in Slovacchia, dove il tempo si è fermato all'anno
1942. Quell'infausto giorno gli studenti vennero impietosamente
catturati e deportati nei campi di concentramento. Quell'ennesimo
tragico episodio di persecuzione razziale lasciò vuoto e desolazione
in questo piccolo tempio della cultura, spazzò via, come una ventata
gelida e malefica, la vita che anelava quotidianamente nelle aule
chiassose, gli scherzi camerateschi nei corridoi, il vociare tra i
banchi. Da allora tutto è rimasto immobile come un fermo immagine.
Cosicché non rimangono che vecchi libri impolverati, calcinacci,
mura screpolate a testimoniare silenziosamente il passaggio dei
rastrellamenti. Troneggia la polvere stratificata sulle pagine rose
dei libri, dei registri, sui quaderni segnati degli alunni
abbandonati frettolosamente sui banchi di scuola.
Jury Doic fotografa la desolazione, l'abbandono, l'usura del tempo che sgretola, consuma, distrugge. Primo piani di libri consunti ritrovati negli angoli abbandonati, in piccoli armadi dove l'acciaio corroso e il legno tarlato deforma l'arredo interno della scuola. La sua attenzione si ferma sui dettagli che diventano protagonisti assoluti dell'immagine in una gioco di luci che esalta il colore dei pigmenti sul foglio di carta. Ma nonostante gli oggetti siano consumati dal tempo e il retroscena drammatico, le fotografie ci appaiono intrise di un'irresistibile forza vitale, sono spettacolari, prendono vita come una fiamma attizzata da un improvviso soffio di vento. Ed è proprio una fiamma che riscalda e non distrugge quella che si identifica nelle pagine aperte di un libro immortalato dallo scatto del fotografo.
Altre immagini, altre impressioni. Il
dorso nudo di un volume ricorda la corteccia viva di un albero a
simboleggiare l'esistenza a monte di una natura generatrice rispetto
alla presenza silenziosa degli oggetti inanimati. Sono molte le
chiavi di lettura per comprendere appieno questo bellissimo lavoro
oltre alle quali ci piace pensare che Dojc voglia soprattutto
recuperare ciò che rimane e riaffiora tra le macerie della cultura
del popolo ebreo in Slovacchia.
Ritroviamo quindi accanto alle immagini
dei libri gli oggetti sacri dei rituali religiosi come i Tefilin
ammucchiati confusamente, e un primo piano della Torah, la sacra
pergamena della preghiera del sabato. Infine a completare
l'allestimento della mostra una bellissima foto della sinagoga di
Košice (la seconda città più importante della Slovacchia) domina
una parete di fondo della galleria.
Nel tentativo di distruggere la cultura
di un popolo anche i templi hanno visto abbattersi sulle loro pareti
di pietra la scure del nemico. Košice è l'esempio emblematico di
questa crudeltà. L'architettura di un popolo che
attraverso i suoi simboli, i suoi codici, il suo linguaggio fatto di
pietre, incisioni, di linee curve e archi a tutto sesto, e che Victor
Hugo definisce essere il vero libro dell'umanità, è dagli albori
della civiltà il mezzo deputato a custodire il pensiero di un popolo
prima ancora che i letterati lo riversassero nelle pagine di pesanti
volumi. Distruggere i suoi edifici equivale a colpire coloro che
rappresenta. Il filo conduttore della mostra sembra dipanarsi davanti
ai nostri occhi ma tutto lascia spazio ad una personale
interpretazione che nulla toglie alla bellezza delle immagini e al
talento di questo grande fotografo.
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