Uno spazio espositivo all'interno della splendida cornice di Palazzo Borghese dedicato all'arte della fotografia
(testo Rosa Orsini)
All'interno di palazzo Borghese a Roma, attraversando il lungo cortile cinquecentesco abbellito dalle fontane del Rainaldi, ci troviamo di fronte all'entrata di questo bellissimo ambiente le cui sale, ornate da affreschi e grottesche, sono state destinate a spazio espositivo.
La Galleria del Cembalo è frutto dell'iniziativa di Paola Stacchini Cavazza, proprietaria della galleria e discendente dei Principi Borghese, famiglia aristocratica romana che tanto ha dato alla città di Roma in tema di collezioni d'arte, e dell'editore Mario Peliti, esperto conoscitore di fotografia e fondatore di un prestigioso premio internazionale, the European Publishers Award for Photography. La galleria, inaugurata nel 2013, incentra la sua attività intorno al mondo della fotografia ospitando al suo interno mostre dedicate ai più importanti fotografi del panorama internazionale ma con un occhio attento anche ai giovani talenti che si affacciano sul mercato. Il progetto nasce da una lunga e storica amicizia che lega gli ideatori di questo progetto artistico eche vede unire, come afferma la signora Stacchini, “necessità a competenze cercando di fare un progetto unico in questa direzione”. L'attività della galleria è supportata anche da un'importante iniziativa editoriale del gruppo Peliti Associati. Nel mio viaggio intorno al mondo dell'arte e alla realtà del mercato, la galleria del Cembalo si presenta come un importante punto di partenza per comprendere le dinamiche che muovono le scelte dei galleristi e la loro attività organizzativa. Grazie alla gentile disponibilità di Paola Stacchini Cavazza e Mario Peliti che mi hanno dedicato buona parte del loro tempo intrattenendo una lunga ed interessante intervista possiamo comprendere le problematiche che ruotano intorno al mondo della fotografia, alle dinamiche di mercato e alle scelte dei collezionisti.
Domanda:Innanzitutto
come nasce la galleria?
Stacchini: L'apertura della galleria come tale è stata quasi una scommessa. Con
Mario Peliti abbiamo provato a fare questa cosa insieme unendo le
nostre competenze. Però per quanto riguarda la fotografia io partivo
da zero, intendendo come zero chiunque ami la fotografia e abbia
giocato a far fotografie, ma niente di più. La scelta di dedicare
gli spazi alla fotografia viene dalla competenza di Mario che da
trent'anni fa l'editore di fotografie con grande passione. Conosce
tutto l'ambiente, i fotografi, le tecniche. Quindi diciamo che è
stato lui che mi ha trascinato nel mondo della fotografia. Senz'altro
per me era più facile occuparmi di questo settore piuttosto che
creare una galleria d'arte antica dove è ancora più difficile
diventare dei veri conoscitori. Comunque Mario aveva già avuto qui a
Palazzo Borghese una piccola galleria che si chiamava Galleria
minima, che è stata in attività per circa dieci anni. Un locale
che affacciava sul cortile, molto più piccolo di questo dove però
sono passati molti nomi importanti e famosi. Cito Newton, ad esempio.
Nonostante le mie resistenze iniziali, non perché non volessi farlo
ma perché partivo completamente da zero, lui mi ha infine convinto,
rassicurandomi e venendomi in aiuto data la sua precedente esperienza
e l'ampia conoscenza sull'argomento. Ed è andato tutto bene.
Peliti:
Diciamo che tutto nasce da un'amicizia storica e dal fatto che io
sono una goccia cinese.
D:
La galleria è stata aperta nel 2013. Come è stata la mostra di
apertura?
Stacchini:La mostra di apertura è stata bellissima, grandiosa, di grande
godibilità e visibilità. Tanti nomi importanti, foto enormi. La
mostra si intitolava Passaggi. Questo
perché Mario ha voluto che ogni autore proponesse due fasi diverse
del proprio lavoro. Per cui si parlava di un passaggio di stile.
Peliti:
Nello specifico un cambiamento di attitudini di un uomo. Si trattava
di tre generazioni di fotografi. Hanno esposto Ugo Mulas, Mario
Cresci, Gabriele Basilico, Olivio Barbieri, Francesco Radino, Antonio
Biasiucci, Paolo Pellegrin. Moira Ricci, Silvia Camporese, Alice
Pavesi Fiori, fino ad arrivare a Luca Campigotto e Paolo Ventura. Era
una mostra grossa in quanto si trattava di trenta pezzi. Una mostra
se vogliamo anche fin troppo istituzionale, per certi versi, però lo
spazio della galleria porta a fare mostre istituzionali.
D:
Riguardo l'organizzazione della galleria, chi si occupa
dell'allestimento e della selezione degli artisti?
Peliti:
Siamo in tre. Io, la signora Stacchini e mia moglie. All'inizio
ovviamente me ne occupavo io avendo più dimestichezza e più
rapporti. Ora le cose stanno un po' cambiando, devo dire. Calcolando
che la galleria conta uno spazio molto grande si tratta sempre di
mostre di dimensioni museali. Ma ormai da circa un anno abbiamo
standardizzato i tempi. La prima volta che abbiamo attaccato i
tiranti alle pareti perché non si possono fare i buchi, i ragazzi
hanno impiegato una settimana a montarla. Adesso montano in due
giorni. Ovviamente si porta a regime anche in base all'esperienza che
si matura.
D:
Parlando in parallelo dell'attività editoriale che fa da supporto a
questa struttura, tempo fa ho partecipato alla presentazione di un
libro che conteneva delle foto dedicate all'Aquila realizzato da
Alessandro De Cecco, un giovane fotografo che è anche ingegnere. C'è
da parte sua l'intenzione di promuovere giovani talenti ? E come si
combina il mestiere di ingegnere con l'arte della fotografia?
Peliti:
Un fotografo è un fotografo nel momento in cui fa delle fotografie,
indipendentemente dal suo mestiere. E' solo un problema di
consapevolezza. Io dico sempre questo per essere chiari: il radiologo
è un fotografo che dice di essere un medico. Se si accetta questo
come assioma ovviamente è soltanto l'intenzione che mi dice di quale
fotografia stiamo parlando. Per tantissimi anni l'industria
fotografica ha fatto sì che si generasse una gran confusione poiché
era interesse dell'industria mettere insieme fotografi diversi e
generi diversi. Parlando ad esempio di Salgado, quando fece la mano
dell'uomo, Workers. il suo primo grande libro, lui ebbe una
sponsorizzazione di un milione di dollari dalla Kodac. Alcune
fotografie di Workers divennero la pubblicità del rullino.
Adesso nessuno si stupisce a comprare per trentamila euro una sua
fotografia peraltro non numerata. L'ambiguità iniziale in qualche
modo è stata superata dalla notorietà dell'autore. Il suo progetto
iniziale non era un progetto artistico. E' stato un progetto di
documentazione, poi ha avuto un approccio più artistico anche se di
tradizione reportagistica. Antonio De Cecco è un ingegnere che ha
fatto un lavoro di ricognizione sulla realtà dell'Aquila con una
sensibilità umanistica se vogliamo, ma con il rigore di un
ingegnere, inserendo nel libro molte citazioni essendo anche un
autore colto. Ma ai fini autoriali il fatto che lui sia un ingegnere
non è una discriminate. Per anni Mario Giacomelli ebbe dei problemi
perché c'erano fior di storici che non lo consideravano un fotografo
ma un dilettante. Tant'è vero che lui aveva una tipografia, stampava
i biglietti da visita, e aveva oltretutto uno stabilimento balneare a
Senigallia. Eppure è sicuramente il fotografo della generazione del
secolo scorso più famoso d'Italia. Quindi è sempre la progettualità
e la capacità di rappresentare che conta. Anche Alessandro Imbriaco
è un ingegnere. Si occupava di limitazioni di vibrazioni a bordo di
imbarcazioni di lusso e lavorava anche bene. Ma ha a rinunciato a un
certo tipo di professione per dedicarsi a tutt'altra cosa. Anche in
questo caso c'è l'intenzione radicale.
Stacchini:
Comunque Mario nutre la voglia e la passione di promuovere giovani
che gli sembrano valenti. Alice Pavesi Fiore ha fatto la prima
mostra proprio da noi. Infatti nella mostra inaugurale Passaggi
c'erano due suoi lavori. Un'altra giovane fotografa che lui ha
scoperto è Alisa Resnik.
D:
Ci parli dunque di questa giovane fotografa Alisa Resnik.
Peliti:
Alisa Resnik è una fotografa
russa, un talento straordinario che io ho conosciuto in occasione di
un masterclass che si chiamava Reflections creato da Giorgia Fiorio e
Gabriel Bauret. La Resnik lavorava e lavora tuttora in un bar a
Bologna come cameriera. Il suo era un problema oggettivo in quanto
lavorando non poteva fare delle foto Cosicché le ho proposto di
mandare una fotografia al giorno lasciandole libera scelta sul
soggetto. Lei ha mandato questo suo diario fotografico ad un
concorso abbastanza importante di cui io sono fondatore (European
Publishers Award for Photography n.d.r.). Lei ha vinto questo premio
nel 2013 e ha pubblicato il suo primo libro fotografico in cinque
versioni: italiano, inglese, francese, tedesco e spagnolo. Per cui ad
un certo punto si è trovata ad avere le mostre in giro per tutta
Europa.
D:
Lei mi ha citato nomi famosi, fotografi di fama internazionale
accostati a giovani talenti.
Peliti:
Devo dire che che dà molta più soddisfazione promuovere il lavoro
di un giovane autore che montare la mostra di uno noto. E' ovvio che
a noi piacerebbe proporre insieme autori importanti e giovani
promesse e non è escluso che si possa immaginare uno spazio dedicato
a questo. Le sale sono parecchie. Il problema grosso è che anche se
si tratta di piccole esposizioni, sono sempre mostre e la macchina
organizzativa è esattamente la stessa. Per cui vanno studiati dei
sistemi più agili. Ma non è un problema se pensiamo che l'abbiamo
fatto in passato. Ci sono autori che sono ormai diventati molto
famosi che abbiamo esposto quando avevamo 23 metri quadrati vent'anni
fa. Il problema riguarda la programmazione e stare attenti a che ci
sia un equilibrio tra la mostra di un autore importante e un giovane.
Nel senso che per temi, per analogie ci devono essere delle
vicinanze. Quando abbiamo fatto la mostra di Sammallahti, una
mostra antologica di questo fotografo finlandese che occupava quattro
sale con 130 foto, c'era una saletta dedicata al lavoro di Alessandro
Imbriaco con delle stampe molto piccole. La cosa ha funzionato molto
bene perché nonostante le foto fossero state fatte con un approccio
molto diverso c'era una positività nello sguardo molto simile.
D:
Come funziona la promozione di un giovane talento?
Peliti:
Esistono delle realtà molto importanti riguardo la promozione dei
giovani talenti. E' vero che apparentemente l'ambiente italiano può
sembrare amorfo ma in realtà non è così. E' un'attitudine tutta
italiana quella di valorizzare un artista quando è già diventato
famoso all'estero. Ma questa è la storia d'Italia. Renzo Piano è
dovuto diventare Renzo Piano prima che gli dessero l'incarico
dell'Auditorium. Tutti i registi italiani sono stati scoperti in
Francia, gli illustratori, basta pensare a Mattotti (Lorenzo) in
Francia è un mito e poi è diventato un personaggio. I fotografi
sono stati scoperti, pubblicati e celebrati all'estero. Quindi è
un'attitudine che abbiamo noi di auto flagellarci, e soprattutto di
evitare di scegliere. I musei italiani adesso incominciano ad esporre
autori italiani. Mi ricordo che in passato esporre un autore italiano
contemporaneo era una tragedia poiché c'era una pressione a livello
politico che impediva ad alcuni istituiti di trattare l'arte
contemporanea per far sì che ad esporre fosse il cugino, il parente
o il nipote di qualche persona influente. Questo è un fatto reale.
Oggi le cose sono cambiate. Abbiamo più autonomia di quella che
avevamo prima, in generale. Se c'è un talento vero, per come
funziona la comunicazione in questo momento, lo si respira
contemporaneamente a Roma, Parigi Londra a Mosca. Funziona con il
passaparola. Sono tanti gli autori italiani famosi nel mondo in
questo momento. E noi stiamo importando più di quanto importiamo.
D:
Forse perché ci portiamo dietro il marchio dell'eccellenza.
Peliti:
Perché sono autori che da una parte sono abituati a sopravvivere,
all'italiana. Noi abbiamo comunque una tenacia che ci
contraddistingue. Il grosso problema è che tutti gli italiani che
hanno avuto eco nel mondo se ne sono andati. Forse l'unico che non si
è mai spostato dall'Italia è Iodice. È l'unico grande autore
italiano famoso in tutto il mondo che non si è mai spostato da qui.
Però se io vado a pensare, Paolo Ventura, Luca Campigotto, Massimo
Vitali si sono trasferiti a NewYork, o hanno cominciato a vendere
in America. Paolo Pellegrin vive a Londra. Gli altri, quelli che
diciamo si trovano ad un livello intermedio di notorietà, sono
legati comunque al mercato francese.
D:
Intende dire che il mercato all'estero è più ricettivo?
Peliti:
Diciamo che lì girano molti più soldi. Un'operazione come quella di
François Pinault di investire milioni euro in 130 quadri di Irving
Penn da esporre a Palazzo Grassi a Venezia è unica nel suo genere.
In Italia non c'è nessuno che può fare un'operazione di questo
tipo. Forse soltanto Prada, Nel mondo delle cifre magari ci sarà
pure gente che lo può fare, gente che stacca tranquillamente un
assegno di qualche milione di euro. Oltretutto va tenuto in conto
che noi diciamo tanto che vanno attirati capitali ma i capitali si
attraggono con sgravi fiscali. Non si è mai visto che con una
pressione fiscale così grossa ci sia qualcuno che prenda la
residenza in Italia. Se noi andiamo a vedere la più grande
concentrazione di ricchi è la Londra dove la tassazione è più
bassa. C'è una grande percentuale di ricchi, non solo britannici ma
anche indiani, arabi, russi, disposti a spendere. Lo stesso in
Francia, anche se in misura minore. Qui non ci sono. I collezionisti
italiani si contano sulla punta delle dita. Questo è un problema
reale. Oltretutto sono pochissime le banche che comprano e in
generale non fanno investimenti importanti. Se si pensa alla storia
il mercato era fatto inizialmente dall'aristocrazia e in seguito con
l'avvento della rivoluzione industriale dalla borghesia, che poi è
diventata il principale acquirente dell'arte. Ma è negli anni di
depressione che si sono formate le grandi collezioni. Ad esempio le
grandi collezioni americane si sono formate negli anni venti, anche
come diversificazione di investimento.
D:
Qual è invece lo scenario italiano?
Peliti:
In Italia i collezionisti d'arte contemporanea stanno in Piemonte,
intorno a Torino dove si è sviluppata l'arte povera, e in Lombardia
dove ci sono le grandi ricchezze imprenditoriali. A Roma esistono
anche delle collezioni importanti ma legate ai costruttori degli anni
cinquanta, sessanta che disponendo di grandi ricchezze hanno
comprato. Poi ci sono un po' di notai, e poi l'imprenditoria romana è
finita. Questo è il ritratto abbastanza reale.
Stacchini:
Si dice che l'arte si fa a Torino, si vede a Milano e a Roma se ne
parla. Qui vengono, guardano. Un soprintendente di Bologna che ci ha
detto che la nostra mostra aveva un livello istituzionale, un
complimento pazzesco. Però poi ci siamo guardati e abbiamo detto, e
no, non va perché noi dobbiamo vendere. Se sembriamo un museo c'è
qualcosa che non va. Adesso stiamo cercando di sfatare il fatto che
noi vogliamo essere un museo.
D:
La fotografia oggi dà molta importanza a come viene stampata,
presentata con delle cornici particolari, frammentata per formare dei
dittici o più pannelli che vanno poi a comporre l'intero. Tutto
questo fa parte di un'evoluzione della tecnica?
Peliti:
Non è un cosa nuova. Deriva da una cultura reportagistica. Bisogna
dire che tanto è più forte la consapevolezza che si sta all'interno
del sistema dell'arte tanto più la presentazione ha un ruolo. E'
inconcepibile mettere la cornice sbagliata. Torniamo sempre al
discorso delle categorie. In una mostra ci sono delle cose che vanno
tenute in considerazione. Per esempio riguardo le fotografie di
Imbriaco abbiamo esposto dei pezzi più piccoli usando il vetro
museo. Non si vedeva niente. Queste foto se uno le vuole le deve
esporre senza vetro con tutti i rischi che comporta. Perché il vetro
lo uccide, non c'è niente da fare.
Stacchini:
Ma è anche la loro particolarità che le porta ad essere esposte
così. Sono foto fatte prima del tramonto, quando la luce è appena
appena percettibile, proprio prima che fa buio. Quindi col vetro
museo perde tutto.
Peliti:
Certe volte un lavoro bello incorniciato male è come un libro di
belle foto stampate male o impaginate peggio. Ci deve essere sempre
un equilibrio tra le cose. Bisogna anche tener conto della gamma
tonale delle immagini ed evitare un accostamento che metta in ombra
le altre fotografie. E poi le varie scelte che si compiono, come
vengono messe a parete. Sono tutti aspetti che vanno valutati.
D:
L'esposizione di un'opera a livello di galleria è un po' un ibrido
tra un piccolo museo e il mercato dell'arte. Qual è la vostra idea a
riguardo?
Peliti:
In realtà la galleria è un po' un paradosso. Se uno vende un'opera
la vende su un progetto. E' difficile vendere un'opera perché uno
passa e la compra come si fa con un abito. La galleria è
un'affermazione di un luogo, di un intendimento, di un interesse. Da
parte di ch gestisce la galleria c'è anche l'intenzione di proporre
ciò che piace, cercare di dare un senso, una continuità alla
programmazione, e creare un luogo di incontro.
Stacchini:
Vorremmo che la Galleria del Cembalo diventasse un luogo di
aggregazione, un posto dove recarsi la sera magari prima di cena per
fare due chiacchiere, dove si possono vedere belle cose, godere di un
momento di bellezza. Vogliamo creare un luogo dove avvengono tante
cose e piano piano ci stiamo riuscendo. Adesso c'è la mostra di
Malick Sidibè però alla fine c'è nel mese, il 28 ottobre, c'è in
programma un altro evento che verrà inserito all'interno delle sale
espositive: una campagna di prevenzione per la lotta del tumore al
seno. Una serata dedicata alle donne. Vorremmo trasmettere l'idea e
evidentemente piano piano ci stiamo riuscendo che qui succedano un
sacco di cose belle, piacevoli, che abbiano una certa coerenza e
un'eleganza che si abbina alla bellezza degli ambienti. Anche perché
qui non puoi mettere qualsiasi cosa. È un vincolo ma ci piace
rispettare anche la bellezza del luogo.
Peliti:
Io credo che la galleria debba essere un luogo di incontro.
Specialmente in una città come Roma. Sarebbe ideale e auspicabile
che la gente cominci a darsi un appuntamento in galleria per il
piacere di stare in un luogo. Purtroppo è un'abitudine che a Roma
non abbiamo. Qui la vita sociale lavora su livelli diversi.
Contrariamente a Venezia o Milano dove c'è l'abitudine di
incontrarsi dopo il lavoro. Sarebbe bello se la galleria diventasse
una specie di estensione della casa. A Roma si va solo perchè
esiste l'aspetto mondano, il pettegolezzo. L'inaugurazione della
mostra di Gastel e Thorinbert sulla moda ha funzionato molto bene
perché andava bene per la stampa, perché Roma è un po' così. Dal
punto di vista della visibilità è stata una mostra che ha
funzionato molto bene. Era una mostra interessante di grande richiamo
mondano ma poco adatta al collezionismo. C'erano pochi pezzi adatti.
D:
Perché la fotografia di moda non attira il collezionista?
Peliti:
La fotografia di moda è una fotografia molto complicata al fine del
collezionismo. Non si comprano foto di moda anche se si parla di
grandi fotografi come Newton. Parlando di Irivng Penn, le sue foto
sono state tutte commissionate da Vogue o da Condè Nast per cui
c'è sempre un legame con l'editore. Non si va a comprare quella del
vestito, ma si compra altro. Questo perché c'è un vizio di forma
nella fotografia di moda, nel senso che deve essenzialmente
rispettare delle esigenze di tipo editoriale. Quello che comanda è
il mercato o il look che deve avere, non tanto la qualità intrinseca
della fotografia. Tant'è vero che quello che noi abbiamo esposto era
il tentativo di dire: vi mostriamo delle cose che nascono per una
committenza ma hanno un valore artistico. Però questa è una cosa
che ha fatto confusione.
D:
Si torna quindi al discorso del collezionista.
Peliti:
Chi compra la fotografia non è altro che un collezionista d'arte che
compra delle fotografie. Ma con la logica del collezionista. Nessuno
compra una fotografia solo per la notorietà del nome. Per esempio
Gastel da quel punto di vista è un nome molto noto ma non ha
richiamato. Oltretutto c'è un aspetto che vale per tutto il mercato
dell'arte: la riconoscibilità dell'autore, il desiderio di possedere
un'opera che peraltro venga riconosciuta ad un primo sguardo. C'è
chi compra per appenderlo alla parete, per farne sfoggio, c'è invece
chi compra un'opera perché è interessato a quel momento storico,
quel tipo di evoluzione. Quindi esistono varie attitudini. La cosa
bella della mostra di Cartier Bresson in programmazione in questi
giorni all'Ara Pacis è che ci sono delle stampe fatte da Bresson.
Una rarità. Quando le ho viste mi sono commosso perché sono proprio
state stampate da lui. Si tratta di pezzi unici. Quindi esiste anche
l'idea del feticcio. Però quel tipo di feticcio se uno non è un
attento osservatore e un vero conoscitore diventa una stampina
bruttina, un po' triste. E magari quella costa cifre altissime.
Riguardo ad uno stesso autore abbiamo prezzi completamente diversi.
Ci sono comunque delle logiche di mercato che sfuggono.
D
: A conclusione di questa piacevole intervista mi può annunciare
quale sarà il prossimo artista che esporrete?
Peliti:
In questo momento ci sono due mostre. In realtà una permanente di
artisti che sono legati alla galleria, che fanno parte degli autori
che rappresentiamo, dall'altra Malick Sidibé.
Mentre
il 20 novembre si inaugurerà la mostra di Paolo Ventura. Questo
artista ha fatto delle piccole storie fotografiche. Sono dodici in
tutto, noi le presentiamo tutte. Pensi che non sono mai state esposte
più di tre. Inoltre ci sono scenografie, bozzetti. La mostra è
grossa perché presentiamo circa 60 opere. E' una mostra anche
divertente, molto colorata. E rimarrà aperta fino a fine gennaio.
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